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27 Marzo 2007

I "DICO" DI CARLO MAGNO

I "DICO" DI CARLO MAGNO

Era in uso nella società franca, fin da molto prima che Carlo Magno realizzasse il suo progetto di unificazione dell'Europa, una forma di contratto simile a quello matrimoniale ma con effetti esclusivamente civili, denominato "patto di pace" o "di amicizia" (friedelehe).

L'alleanza stretta da Pipino con la Chiesa di Roma non impedì il mantenimento di questa tradizione tipica di una società libera e barbarica, anche se fu necessario discutere il problema in un'assemblea popolare tenuta per volontà del re nella villa regia di Compiegne.

La questione delle leggi che avrebbero dovuto regolamentare il vincolo matrimoniale tra i franchi, ora che Pipino si era proposto come difensore universale della Chiesa, aveva sicuramente una sua importanza, ma non tale da indurre il popolo a modificare secolari tradizioni, peraltro fondate su di una elementare saggezza. Poiché in effetti tra i franchi, nonostante l'avvento della religione cristiana da tre secoli, il matrimonio restava un sacramento dei meno praticati, sopravvivendo l'abitudine di accoppiarsi mediante quell'antico «patto di pace» ch'era un contratto privato facilmente rescindibile, e per questo incompatibile con i precetti cristiani. Aumentava questa incompatibilità il fatto che non escludesse il concubinato e l'instaurazione di regolari rapporti poligamici.

Lo stesso Pipino e la regina Berta, erano stati legati in tal modo nei loro primi anni di unione, mettendo al mondo sia Carlo che Carlomanno fuori della sacralità matrimoniale per come veniva intesa dall'episcopato romano. Si erano poi adeguati alle norme canoniche allorquando il papa in persona si era recato in Francia per legittimare Pipino e i suoi figli re dei franchi mediante sacra unzione, dopo il colpo di stato che aveva estromesso il merovingio Childerico, minacciando di scomunica chiunque non li avesse riconosciuti tali.

Si può capire quali reazioni ci fossero state da parte del clero di Roma, per gli scambi sempre più frequenti con quello delle Gallie, nell'apprendere quanto diffuso fosse tra i franchi questo retaggio di paganità. Ed è per questo che Pipino, dopo avere ammonito più volte i suoi sudditi e gli aristocratici in specie a sposarsi secondo il rito cristiano, aveva voluto che l'assemblea nazionale si occupasse di stabilire regole certe d'intesa con i vescovi romani.

Erano così convenuti a Compiègne per invito del re i legati pontifici e molti eminenti prelati franchi, come i vescovi Burcardo e Crodegango, con il compito questi ultimi di mediare tra il rigore dei principi ecclesiastici e la liberalità degli usi franchi.

Ciò che Pipino voleva era un compromesso, da ricercare attraverso una intesa tra i vescovi franchi e quelli romani, perchè la tradizione venisse mantenuta senza però confliggere con i precetti della fede.

Una soluzione non era semplice. Si stabilì perciò democraticamente che tutti, nobili e plebei, dovessero sposarsi pubblicamente, rifuggendo dai patti privati, e che di massima il matrimonio dovesse considerarsi indissolubile. Molte concessioni furono però fatte alla tradizione franca, per ragioni di opportunità politica ed equità sociale, in palese conflitto con la dottrina cristiana.

Contrasti sorsero sull'opportunità che un vassallo, avendo preso moglie in un feudo qualsiasi, potesse ripudiarla per sposarne un'altra qualora fosse andato a vivere in un feudo diverso. Si decise che quest'ultima fosse la soluzione più pratica al fine di rafforzare i vincoli di fedeltà con il feudatario del quale ci si poneva di volta in volta al servizio. Determinante fu la considerazione che in tal modo si cementava l'unità dell'esercito - e quindi la forza del regno, dal quale dipendeva la sicurezza stessa del papato - spettando ai singoli feudatari di gestire la coscrizione nelle proprie terre.

Un civile accordo fu invece raggiunto sulla necessità di concedere lo scioglimento del matrimonio in caso di gravi malattie contagiose, come la lebbra, e di vietarlo a chiunque si fosse macchiato in precedenza di colpe infamanti come l'incesto.

Venne inoltre vietato di risposarsi all'uomo che avesse lasciato il proprio feudo d'origine per questioni connesse al diritto di faida, onde sottrarsi alla vendetta, e anche alle mogli abbandonate per la stessa ragione. Era questa una preclusione che coinvolgeva molte famiglie, dato l'uso e il diritto di ripagare l'omicidio con l'omicidio, sempre che a uccidere l'assassino (o un suo parente) fosse un parente dell'ucciso.

Il giovane Carlo, non ancora re, sedeva accanto a suo padre in assemblea seguendo con una speciale attenzione il dibattito, convinto com'era della necessità di apprendere personalmente i meccanismi della legge onde poter legiferare un giorno con saggezza. Fu tra i primi a rendersi conto che non poteva esserci giustizia se non si comprendevano le ragioni delle antiche consuetudini. Ne dedusse che solo poche armoniche leggi potevano fare la felicità del popolo, e molte invece disfarla.

Vi fu tensione infine nell'assemblea quando si cercò di individuare le ragioni per le quali concedere o meno l'annullamento del matrimonio. Bisognò accettare, in mancanza di regole certe, l'eventualità di poter decidere caso per caso. Si convenne però che le motivazioni addotte dal marito, soprattutto per quanto concerneva la mancata consumazione, dovessero avere maggiore credito di quelle sostenute dalla moglie.

Così, nel compromesso e nell'urgenza di conciliare due visioni radicalmente diverse della vita e dell'amore, furono fissate a Compiègne le nuove leggi matrimoniali, avallate da un fermo monito di Pipino contro quei franchi che non vi si fossero uniformati.

Si può capire tutta questa dissonanza di opinioni e orientamenti se si tiene conto di quale confusione regnasse tra i preti franchi, ancora legati ad antiche credenze pagane, spesso nemmeno battezzati. Si avvertì infatti la necessità, tra quanti parteciparono a quell'assemblea, di togliere licenza d'impartire il battesimo a quei religiosi che non l'avessero ricevuto a propria volta.

Il giovane Carlo aveva deciso in quei giorni di unirsi a una giovane aristocratica di modesto rango, Imiltrude, che gli avrebbe dato il primo figlio, di nome Pipino come suo padre.

Scelse di legarsi con il rito della friedelehe, probabilmente consigliato dalla sua stessa madre Berta per evitare problemi di indissolubilità nel caso la ragione di stato avesse suggerito l'opportunità di un nuovo matrimonio. Come di fatto accadde, quando per cercare una intesa coi Longobardi venne imposto a Carlo di sposare Ermengarda, figlia di re Desiderio e sorella di Adelchi. Carlo si sottopose con amarezza a questa necessità, ripudiando l'amata Imiltrude per sposare invece (con rito rigorosamente cristiano) la poco desiderabile Ermengarda, che contrariamente alle fantasiose descrizioni dei poeti, era brutta e grassa, oltre che sterile.

Il matrimonio religioso senza amore non fu garanzia di stabilità: Carlo chiese l'annullamento delle nozze appigliandosi al pretesto della sua impossibilità di "menar prole". Ne derivò una tragica guerra, conclusa dopo due anni con l'incoronazione a Pavia di Carlo re d'Italia oltre che dei Franchi, primo significativo passo verso la costituzione del Sacro romano impero.